Tratto da "le mille e più avventure che avvengono nella città partenopea…"


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Un amico mi ha segnalato questo “scritto”, io l’ho trovato davvero geniale. È firmato Adriano Cozzolino, non lo conosco, ma dopo aver letto questo suo racconto vorrei tanto compensare questa mia grave mancanza.

Non so bene se sia stato sogno o realtà, so soltanto che la giornata di ieri ha rappresentato per me ciò che -credo- per un famoso Sommo Poeta antico sia stata presumibilmente la sua discesa agli inferi.
Voglio cominciare queta storia vera con la frase di un film: “la strada è entrata in casa”.
Ebbene mai frase è stata pù appropriata per descrivere ciò che di fatto è successo a metà pomeriggio di ieri nel paese in cui vivo, Arzano.
Un rombo assordante è esploso d’improvviso squarciando il silenzio della domenica ed io, spaventato, mi sono precipitato sul balcone di casa, assistendo ad una scena che era un misto tra assurdo e paradossale: due giovani ballavano su un pullman circondati da circa duecento persone che urlavano frasi perlopù incomprensibili, a loro volta circondati da un numero impressionante di moto e motorini praticamente impazziti che sfrecciavano suonando il clacson per finire la loro corsa o contro altre auto e moto o nel cuore della folla urlante.
Vista quindi la piega orgiastico-falloforico-sovversiva che stava prendendo il festeggiamento decido di chiudermi in casa ad aspettare la morte finchè un amico -Virgilio- mi citofona e mi invita a scendere per unirmi ai bagordi. Dopo un tentativo anche abbastanza deciso di resistenza vengo di peso trascinato nell’auto.
E duqnue lo incontrai: “or sei tu quel Virgilio e quella fonte che spandi di parlar largo fiume? rispuosi io lui con vergognosa fronte.”
e Lui, ineffabile e saggio, rispose: “Ja strunz saglie”

Prima tappa: Fuorigrotta.
Arriviamo dopo circa mezz’ora causa traffico (ma questa non è una novità). Mi viene spiegato che Fuorigrotta rappresenta in pratica la mecca, il tempio, la chiesa, la moschea, il muro del pianto, la casa bianca per tutti o quasi i partenopei colpiti da febbre tifoidea -forse, ho pensato, andranno lì per curarsi-. Ci addentriamo quindi nei meandri del quartiere collinare accompagnati costantemente da immagini simili a scenari post-bellici, con cassonetti dati alle fiamme, centinaia e centinaia di oggetti sparsi al suolo e il famigerato tempio eretto come il pù rigoglioso dei membri virili nel cuore nevralgico della zona descritta, il quale sulla sua sommità recava incise tali parole:
“Per me si va nella città dolente, per me si va nell’etterno dolore, per me si va tra la perduta gente”.
Mentre quindi eravamo immersi in alti pensieri e in apocalittiche visioni un’inquietante monito ci arrivò da un tanto solitario quanto scosso abitante di quell’inferno: scappate o vi distruggono la macchina
In un primo momento non comprendiamo quello che stava succedendo. Un’istante dopo il terrore ci assale: un nugulo di uomini di età indistinta e tutti rigorosamente mezzi nudi si aggrappano al portapacchi di una statio-wagon che in tutta fretta fa retromarcia uccidendone un paio e scappando -so che in genere è un uomo che tenta di scappare se inseguito da un’auto ma lì era imperante la legge del contrappasso- a gran velocità in uno spiazzale per poi perdersi in quell’ orizzonte post-bellico.
Il gruppo di siouxes allora allarmato per la perdita della preda e inferocito per l’onta subita decide di assaltare quello che è il bottino pù ambito, l’elefante della strada: un pullman che si trovava a passare di lì.
Lo circondano,l’annusano,cominciano a tirare pietre per indebolirlo. La tensione cresce fino a che cinque o sei del branco particolarmente feroci non decidono di arrampicarcisi sopra e decretare la loro supremazia. Dell’autista non si sa la fine, i pù pensano che sia stato sbranato o che sia stato impalato e portato in trionfo.
Ma torniamo a noi. Il nostro Caronte, spaventato per le già precarie condizioni della sua auto, decide in tutta fretta di fare retromarcia e scappare per una via meno conosciuta e sottrarsi quindi al branco inferocito.
L’unica via percorribile era quella che ci portava al mare, ma non sapevamo ancora che quella sarebbe stata la tappa pù difficile.

Seconda tappa: Mergellina.
“Così l’animo mio, ch’ancor fuggiva, si volse a retro a rimirar lo passo, che non lasciò già mai persona viva”.
Scossi, prostrati e spaventati usciamo quindi dal primo girone.
Ci dirigiamo verso piedigrotta, zona nota per il famoso festival di canzoncelle napoletane. Pensavo di trovarvi pace e ristoro, ma ancora una volta mi sbagliavo.
Allora “m’apparecchiai a sostener la guerra sì del cammino e sì della pietate, che ritrarrà la mente che non erra. O muse, o alto ingegno, or m’aiutate: o mente che scrivesti ciò ch’io vidi, qui si parrà la tua nobilitate”.
E proprio in tema di nobiltà avvenne il primo incontro: una tredicenne pù o meno dalle fattezze balenifere ci ferma e comincia a gorgheggiare.
Allora io chiedo all’esimio Virgilio cosa quella madamigiana volesse, e lui mi rispose: “Ascolta bene e non farti ingannare”.
Impegnato tesi l’orecchio e ascoltai “Gurghoeaoakaa, sfulnrtraojasdopj, buarpp” … era ancora difficile, ma con la forza d’animo trasmessami da Virgilio finalmente capii: “Guagliuo tenit na’ cann?”
Infine era una canna che voleva, ma noi che non disdegnamo la dolce marja a quel tempo ne eravamo spovvisti, e dovemmo quindi sfuggire all’ira funesta dell’erinni che ci inseguiva assieme ai rotoli in bella mostra che la costeggiavano e ballonzolavano contenti.
Contuinuammo, quindi.
Il traffico era come palude. Immobili, attendevamo trepidanti le mosse della pupulaziona partenopeica la quale non smetteva mai di stupirci: milioni e milioni erano gli autoctoni riversatisi per la strada, tutti stringendo bandiere e urlando le frasi che antecedono la battaglia. Migliaia i motorini con a bordo numeri imprecisati di passeggieri, anch’essi sputandoci frasi gutturali di chissà quale idioma.
Promiscquamente si stringevano uomini e donne eccitando i loro sensi alla vista della carne e accoppiandosi in ogni anfratto come simpatici ricci.
Sparite le regole, capovolti gli ordini, sovvertito il Diritto: ecco il contrappasso che Virgilio mi aveva vagheggiato.
Ma mentre ci perdevamo in pensieri legati allo Stato e alla follia di quelle genti, incontrammo una feroce immagine:
“Cerbero, fiera crudele e diversa, con tre gole caninamente latra sopra la gente che quivi è sommersa”. Il sentimento provato dal Sommo Poeta può in qualche modo rimandare a quello non meno stuoefacente che provai io.
Davanti ai nostri occhi infatti – sopraelevati dal suolo- un gruppo di persone latravano come il Cerbero su descritto e si univano tra loro nudi, tenuti saldi soltanto dal loro sudore. Il grande camion che li teneva assieme come “aristoi” separandoli dalla folla in tripudio emetteva acutissimi stridori e cacciava denso fumo nero che ammantava di mistero e tumore quell’idillio. Donne strabordanti testimonianza vivente della dieta mediterranea si ergevano come matrone e dispensavano latte dalle enormi mammelle, uomini primitivi mettevano in bella mostra i petti unti e depilati ma non per questo meno maschi, anzi maschi al punto tale che nell’aria si percepiva la forza di quell’ orgasmo universale e dello sperma che abbondante veniva esploso da enormi membri eretti.
Storditi da quella promiscquità e dal sesso dispensato come ostia consacrata, fuggimmo.

Terza tappa: viaggio di ritorno.
Rotonda Diaz, via Partenpe, via Caracciolo, molo Beverello, Maschio Angioino, Via Foria, Piazza Carlo III… queste alcune tappe del viaggio di ritorno. E tra disagi e difficoltà, nello sconforto gli dissi: “Ma io perchè venirvi? o chi ‘l concede? Io non Enea, non Paulo sono: me degno a ciò nè io nè altri crede”.Ma la divina ombra mantovana: “S’i ho ben la tua parola intesa, rispuose del magnanimo quell’ombra, l’anima tua è da viltate offesa; la qual molte fiate l’omo ingombra, si che d’onorata impresa lo rivolve, come falso veder bestia quand’ombra”.
E furon proprio queste parole a darmi la spinta necessaria per continuare in quel girone tanto duro quanto difficile a sostenersi per la mia vista prostrata.
Lasciato quindi Virgilio a Piazza Carlo III dov’egli tutt’oggi dimora e decisi assieme a Caronte di scegliere la strada meno sgombra di mortali pericoli.
Decidemmo allora per Calata Capodichino, che nonostante bruciasse ancora come bruciava la Roma di Nerone ci sembrava da percorrere meno ardua rispetto ad altri siti.
E, col cuore colmo di speranza che il supplizzio stesse per finire uscimmo fisicamente sani dal Ventre di Napoli (la signora Serao mi scuserà per questa ardua definizione). Insomma, come dire… ” salimmo su, el primo ed io secondo, tanto ch’io vidi delle cose belle che porta ‘l ciel, per un pertugio tondo; e uscimmo a riveder le stelle”.
Salivamo quindi verso l’alto, verso quel territorio che speravamo fosse rimasto esente da scontri e riti orgiastici.
Le strade stesse ci sembravano meno danneggiate, i drappeggi pù radi, neno fitti che nel resto della città dolente. Esseri dalle sembianze semi-umane ci venivano incontro ma questa volta non cercavano di attaccarci o ucciderci, volevano semplicemente manifestare -in modo primitivo s’intende- la loro strana goia…
Non sapevo che ora era, sapevo soltanto che da qualche tempo era calata la notte, forse era addirittura il nuovo giorno. Anzi, Caronte mi disse che era proprio passata la mezza notte quando avvenne il miracolo.
Ora la mano mi trema, le parole si strozzano in gola. Non riesco ad esprimere ciò che vidi, poichè la Ultima e Altissima Visione mi tolse letteralmente il fiato, mi attanagliò il cuore, mi gelò il sangue nelle vene. Il mio amico fidato Caronte piangeva dalla gioia e assunse posa simile ai musulmani in preghiera, pregando per il sommo Dio Calcio, divinità che riconobbi per la prima volta lì, presso l’aeroporto che collegava Calciopoli in Campania con il resto del mondo.
Apoteosi struggente, immensa bellezza che acceca e lascia senza fiato: ecco l’estasi che provarono gli abitanti della strana città alla visione divina che rubò loro l’anima.
I miei occhi, anche se per un breve secondo, riuscirono a penetrare il fascio di luce che ammantava ciò che oggi è sacra reliquia: il City Site Seeing, prescelto dalla infinita saggezza del club uscito vincitore dalla tenzone e decretato dagli stessi fedeli adoranti il pù grande al mondo.
Ora, se avete ancora la pazienza di seguire questo mio racconto, voglio infine dire a voi tutti ciò che vidi su quel mirabile pullman turistico, con tutti i sensi storditi e in deliquio:
Al centro vi era Dio, assiso magnificente sul regale trono, che alcuni chiamavano “De Laurentiis”, alla sua sinistra lo Spirito Santo, che altri chiamavano il sommo “Pier Paolo Marino” e infine alla sua destra Jesù Cristo, meglio conosciuto come il tantrico “Emanuele Calaiò”; tutti e tre circondati da Santi anch’essi dispensando gloria sulla terra e a Capodichino in particolare.
Ora soltanto il Sommo Poeta può dirVi cosa noi provammo a veder cotanta immagine divina:
“Qual’è geometra che tutto s’affige per misurar lo cerchio, e non ritrova, pensando quel principio ond’ello ondige, tal era io a quella vista nova: veder volea come si convenne l’mago al cerchio e come si indova; ma non eran da ciò le proprio penne: se non che la mia mente fu percorsa da un fulgore in che sua voglia venne. All’alta fantasia qui mancò possa; ma già volgea il mio disio e ‘l velle, sì come rota ch’igualmente è mossa, l’amor che move il sole e le altre stelle”.
E poi nulla pù vidi, caddi svenuto in un profondo sonno dal quale mi ridesto soltanto ora.
Adriano Cozzolino

(ah mi sono anche accorto di essere incinto)

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