Il caso Marlane: più di 100 morti sospette. Una storia che fa venire i brividi.


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Mi sono imbattuito in questa notizia per caso, cercando informazione sui fanghi di depurazione. Appena ho letto della Marlane (stabilimento tessile di Piaia a Mare ormai in disuso) e delle sue 50 (e pù) morti sospette mi è venuta la pelle d’oca. Si parla spesso di morti bianche, di operai che muoiono schiacciati da una pressa o ustionati dall’olio bollente, ma poche volte si sente parlare di quella gente che per lavorare si è consumata (nel vero senso della parola).

MarlaneLa Marlane era una fabbrica di tessuti, nata nella seconda metà del 900 (in pieno boom industriale) e che ha visto l’occupazione di pù di 500 operai (quindi un decimo di morti sospette). Leggere la storia e le interviste mi fa comprendere quanto sia fondamentale ed importare capire e conoscere i meccanismi di sicurezza sul lavoro, soprattutto quando si lavora in stabilimenti chimici ad alto tenore di tossicità come la Marlane. Questi operai non sono stati schiacciati dalle macchine, non hanno perso un braccio sotto ad una pressa da 20 tonnellate, sono stati corrosi, lentamente, dalle sostanze che ogni giorno erano costretti a maneggiare ed a respirare senza nessuna protezione o accortenza.

Teresa Maimone di Maratea è stata una delle prime vittime. Adibita alla rocchettiera, un cilindro intorno al quale ruotavano i fili di tessuto che poco prima erano passati per la tintoria. La velocità centrifuga alla quale erano soggetti i granelli di polvere (e tintura) presenti sui fili li spingeva all’interno del volume di aria che la signora Maimone era costretta a respirare. Prima i rossori alla pelle, poi gli svenimenti. Il medico dello stabilimento aveva sempre affermato che il problema era alimentare, ma dopo cinque giorni di agonia all’ospedale di Napoli, Teresa ha smesso di vivere e come lei chissè quanti.

Dalla ricerca che ho fatto è singolare rilevare con quanta superficialità i dirigenti aziendali affrontavano il problema della sicurezza. Alcuni operai, forse quelli maggiomente soggetti alle cattive condizioni lavorative, a fine turno venivano obbligati a bere un flacone di latte “per depurare”. Come se bere un po’ di latte servisse ad annullare gli effetti cancerogeni delle sostanze chimiche respirate. “Tanta era la polvere che nei reparti sembrava ci fosse la nebbia”, afferma Luigi Pacchiano, ex dipendente della Marlane ora malato grave. “Non c’erano aspiratori e spesso eravamo costretti a lavorare con 40°C e con una umidità dell’80%”, situazione ideale per rendere massimo il livello di pericolosità delle sostanza tossiche.  “Dai bidoni venivano tolte le etichette con il teschio, per non impressionare noi operai – continua Pacchiano – eravamo costretti a riconoscere i bidoni dal colore esterno”.

Olre alla tossicità dei prodotti chimici, chi ha lavorato alla Marlane ha assaporato anche il gusto dell’amianto. “L’azienda ha sempre negato l’utilizzo dell’amianto, ma i 108 telai presenti nell’azienda avevano i freni in amianto, freni che si consumavano e che spargevano le loro fibre cancerogene intorno a noi”. Chi tentava di scioperare veniva minacciato di licenziamento.

Insomma, sui 1050 operai che hanno lavorato all’interno della Marlane, fonti non ufficiali affermano che 120 siano deceduti per tumore. Pù del dieci percento consumato dal proprio lavoro e dall’inettitudine dei dirigenti e delle istituzioni che avrebbero dovuto vigilare.

Per approfondire: intervista a Luigi Pacchiano

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