Il progetto, realizzato con l’aiuto di Regione Lombardia e finanziato dal ministero dell’Ambiente con 4,2 milioni di euro, è del Politecnico di Milano ed è stato illustrato all’ateneo meneghino alla presenza del ministro Clini. Relab (acronimo che sta per Renewable heating and cooling Labs) servirà a migliorare l’efficienza energetica degli edifici, ottimizzando anche l’uso dell’energia da fonti rinnovabili e certificando rese e consumi di tecnologie come pompe di calore e sistemi solari termici.
Lo scopo è quello di favorire il raggiungimento degli obiettivi europei di riduzione delle emissioni fissati per il 2020. Il completamento del centro, un edificio di 4.500 metri cubi e 700 metri quadri di impianto con due camere climatiche che sorgerà in zona Bovisa, è previsto entro gennaio del 2013: al suo interno opereranno una decina tra ricercatori a tempo determinato, assegnisti di ricerca e dottorandi coordinati dal dipartimento di energia del Politecnico stesso.
Una casa autosufficiente per chi vive in zone remote della terra. Si chiama Tob (Triangle-based omni-purpose building) ed è un sistema modulare di generazione di energia che integra moduli fotovoltaici e sistemi di accumulo. Sviluppato da Enel ingegneria e ricerca, è stato presentato il 7 maggio nella sede Enel di Pisa.
Il sistema Tob è una struttura abitabile in legno, con una geometria adattabile al sito di installazione. È costituito da elementi modulari di facile montaggio, eseguibile in loco anche da personale non specializzato; produce energia elettrica e la accumula per poi renderla disponibile in funzione delle necessità. «Il sistema», spiega Livio Vido, direttore della divisione ingegneria e ricerca di Enel, «potrà trovare un utilizzo nei Paesi in via di sviluppo ma anche sul territorio italiano: può essere infatti impiegato in campi di accoglienza a seguito di calamità naturali; per la realizzazione di ambulatori da campo o scuole in zone rurali; per strutture autosufficienti all’interno di resort turistici; per baite, rifugi o strutture per la sorveglianza di boschi e parchi naturali».
Perché limitarne l’uso solo in casi estremi? Non si potrebbe utilizzare questo sistema anche per le abitazioni cittadine?
Gli scienziati della USC (University of Southern California) hanno sviluppato un sistema di celle fotovoltaiche a buon mercato: le celle solari a base di nanocristalli, particelle così piccole da poter essere utilizzate come inchiostro liquido e, quindi, come vernice. I nanocristalli solari hanno dimensioni di circa quattro nanometri e possono galleggiare se posati su una soluzione liquida, “si possono stampare celle solari così come si stampa un giornale o una rivista”, ha dichiarato Richard L. Brutchey, docente di chimica presso l’Università della California.
Brutchey, insieme a David H. Webber ha sviluppato un nuovo rivestimento superficiale composto da semiconduttori a base di cadmio, con il quale si possono realizzare celle solari liquide semplici ed economiche.
Per riuscire nel loro intento, Brutchey e Webber, sono riusciti a rendere stabile un liquido che conduce energia elettrica. In passato, per tenere stabili i nanocristalli, venivano utilizzate molecole organiche. Queste molecole organiche, purtroppo, isolavano i cristalli, rendendoli di fatto dei pessimi conduttori.
Il legante scoperto da Brutchey e Webber non solo è in grado di tenere compatti i cristalli, ma anche incrementare le caratteristiche conduttive degli stessi. Con processi a bassa temperatura, si possono anche stampare delle celle solari su materiali plastici piuttosto che di vetro senza nessun tipo di problema, con la possibilità di ottenere dei pannelli solari di qualsiasi forma e spessore per adattarsi a qualsiasi spazio disponibile.
La loro ricerca continua ed avrà come obbiettivo la sostituzione del Cadmio con altri materiali, visto che quest’ultimo è tossico e pericoloso.
Non è ancora il tempo della commercializzazione delle celle solari liquide ma, sicuramente, in futuro potremmo avere pannelli solari in qualsiasi posto sarà possibile stendere una vernice.
Per approfondimenti fate riferimento al sito della USC.
Non proprio una qualunque, ma una particolare stampante 3D, progettata dai ricercatori dell’Università di Glasgow (Uk)guidati da Lee Cronin, consentirà ai chimici di sostituire costosi e numerosi attrezzi da laboratorio che affollano armadi e cassetti per la realizzazione delle loro reazioni. Una contro molti potremmo dire. Ma sarà veramente alla portata di tutti?
Abbiamo già visto la nascita di apparecchiature per la stampa di oggetti di vario tipo, ma mai nessuno aveva realizzato un dispositivo che stampasse sia i componenti che i materiali necessari per far avviare una reazione chimica. La stampante è programmata per progettare la reazione, disegnare i reattivi necessari, e controllare lo svolgimento della reazione per via digitale.
“Usando una stampante 3D low cost e un software open source – riferiscono gli autori sul sito del loro gruppo di ricerca – abbiamo prodotto il materiale per sintesi organiche e inorganiche, inclusi catalizzatori, e altre componenti per analisi elettrochimiche e spettroscopiche”.
L’apparecchiatura funziona scegliendo preliminarmente una cascata di reazioni da studiare e quindi il materiale di laboratorio utile per la sua realizzazione, con l’aiuto di adeguati programmi per il computer. Questi stessi software sono poi usati per la stampa dei materiali e l’innesco della reazione, mentre altri ne monitorano lo svolgimento. Avviene quindi un continuo feedback sull’avanzamento del processo, utile ad eventuali correzioni in itinere.
“Nel suo complesso – concludono gli autori del lavoro – questo approccio costituisce una piattaforma economica, automatizzata e riprogrammabile per la ricerca chimica, che rende le tecniche, sia di ingegneria chimica che di normale pratica di laboratorio, assolutamente accessibili”.
Se sarà il vero trionfo della democrazia è una domanda ancora priva di risposta: il dispositivo è ancora in forma di prototipo e molto deve essere ancora fatto. Ma i ricercatori promettono battaglia a colpi di upgrade.
L’Italia, in particolare al nord, è ricca di canali, fiumiciattoli, ruscelli e piccole dighe. Si tratta di 10 mila piccoli salti d’acqua fra 1,5 e 3 metri di altezza. Grazie a una tecnologia innovativa Frendy Energy si è specializzata in questo business di nicchia del mini-idroelettrico, inaugurando il primo impianto a livello mondiale in provincia di Novara. Il sistema è una turbina dotata di un innovativo inverter che sfrutta la corrente, i salti d’acqua e le piccole onde per produrre elettricità.
Negli ultimi due anni l’azienda (450 mila euro di fatturato) ha realizzato con successo già quattro impianti che producono energia per 2.400 famiglie, evitando ogni anno l’emissione di 5 mila tonnellate di CO2. «Il costo di un impianto», dichiara l’ad Rinaldo Denti, «si aggira fra 800 mila e 1,2 milioni di euro e garantisce, in base agli incentivi, un ritorno economico di 220-300 mila euro all’anno».
RAVENNA. Ricavare valore dal fango, contribuendo allo stesso tempo alla salvaguardia dell’ambiente. È questa l’ambizione del nuovo Disidrat, l’impianto di trattamento fanghi industriali inaugurato la settimana scorsa a Ravenna, alla presenza del Capo della Segreteria Tecnica del Ministero dell’Ambiente Sebastiano Serra, del Sindaco di Ravenna Fabrizio Matteucci, del Presidente della Provincia di Ravenna Claudio Casadio e del Presidente di Hera Tomaso Tommasi di Vignano.
Il Disidrat, ubicato al km 2,6 della Statale Romea, va a sostituire un impianto simile (ma di minori dimensioni e con performance ambientali inferiori) posto ad alcuni chilometri di distanza e per il quale è previsto un articolato piano di riqualificazione ambientale.
L’impianto, gestito da Herambiente (società del Gruppo Hera dedicata a trattamento e smaltimento rifiuti), tratterà, come da Autorizzazione Integrata Ambientale, circa 150.000 tonnellate di rifiuti speciali, pericolosi e non pericolosi, liquidi e solidi, complessivamente intesi come “fanghi”. Grazie alle sofisticate tecnologie impiegate, gran parte del materiale in ingresso potrà essere recuperato e riutilizzato come copertura per le discariche in sostituzione del terreno vegetale o come materiale di consolidamento per le miniere (per riempire i vuoti sotterranei lasciati dagli scavi). Complessivamente quindi il materiale recuperato a seguito del processo, attualmente attorno al 25% nel vecchio Disidrat, potrà all’incirca raddoppiare, comportando conseguentemente una drastica riduzione dei conferimenti in discarica controllata.
L’impianto, realizzato in 24 mesi, con un investimento complessivo di 13 milioni di euro, per varietà dei rifiuti trattabili, dimensioni e caratteristiche tecnologiche, si pone fra le eccellenze europee nel settore. Disidrat inoltre riveste un’importanza strategica all’interno del parco impiantistico di Herambiente, in quanto va ad integrare l’offerta del sistema industriale Herambiente di Ravenna, che conta già su un’importante dotazione impiantistica al servizio dell’ambiente, fra cui rientrano un impianto chimico-fisico, discariche, termovalorizzatori e l’impianto di trattamento acque reflue industriali a servizio del Distret
La piattaforma è stata realizzata con le migliori tecnologie disponibili sul mercato, nel pieno rispetto dell’ambiente. Innanzitutto è stata garantita la protezione della falda e del suolo su cui si trova l’impianto mediante impermeabilizzazione con telo in polietilene ad alta densità (HDPE) sotto l’intera area dell’impianto. Grazie alla realizzazione di 3 impianti di aspirazione e trattamento aria, che consentono 6 ricambi d’aria ogni ora, a servizio di altrettante fasi del processo, si è potuto garantire il contenimento degli odori e delle emissioni. Inoltre è stato realizzato un sistema fognario a tenuta in HDPE per la raccolta e l’invio delle acque delle aree di lavorazione all’adiacente impianto di trattamento chimico-fisico. La progettazione della struttura ha infine tenuto conto anche dell’impatto acustico, che con apposite soluzioni, è stato minimizzato, nel pieno rispetto delle normative vigenti.
Lo smaltimento dei reflui industriali pone, ancora oggi, delle questioni della massima importanza. Questioni a cui sta tentando di rispondere, con un approccio ecologicamente sostenibile, un team di ricercatori spagnoli della Universidad de Almeria (UAL). Nel Dipartimento di Ingegneria Chimica dell’ateneo si sta, infatti, sperimento un processo alternativo nel trattamento delle acque nere che richiede l’impiego di sole e fango microbiologicamente attivo. Al pari di ciò che avviene per la produzione di biocarburanti algali, gli scienziati hanno introdotto l’acqua reflua in un bioreattore all’interno del quale, attraverso l’azione di batteri contenuti nel fango attivo, viene ottenuto azoto e carbonio.
Per ottenere ciò il team ha progetto un apposito reattore anossico a membrana in grado di rimuovere in un solo passaggio entrambi gli elementi chimici operando a bassi livelli di ossigeno, nonostante, tradizionalmente, il processo richiederebbe invece fasi diverse e condizioni aerobiche differenti. La membrana serve a separare la biomassa dall’acqua filtrazione attraverso una maglia dai pori microscopici; la loro ridotta dimensione permette ai batteri di rimanervi adesi e non passarvi attraverso insieme al liquido.
“Il vantaggio del reattore anossico a membrana è quello di consentire che le due procedure siano effettuate insieme in modo che, quando l’acqua che circola all’interno riceve l’ossigeno dell’aria utilizzata per pulire la superficie della membrana, avviene la fase aerobica necessaria per la rimozione del carbonio; al contrario, dove c’è poca aerazione viene favorita la degradazione”, spiega il ricercatore Jose Luis Casas Lopez. Con questo approccio gli ingegneri intendono trattare circa 2 metri cubi di acque nere al giorno provenieneti dall’azienda di Almeria Citricos del Andarax SA.
Una scuola per la formazione di “007” destinati a prevenire e perseguire i reati ambientali. Nasce a Castelvolturno, nel Casertano; una terra difficile, preda della camorra, per anni oltraggiata dall’abusivismo edilizio e dall’interramento di rifiuti, anche tossici. Proprio per dare un segnale simbolico di legalità, si è deciso di aprire qui, nei terreni confiscati al clan Coppola, quest’accademia, gestita dal corpo Forestale dello Stato, la cui aula magna è stata intitolata a un personaggio simbolo della lotta alla criminalità organizzata: il parroco Don Peppino Diana, ucciso dai Casalesi a Casal di Principe.
A inuagurare la struttura c’erano il capo della Forestale, Cesare Patrone e il ministro delle Politiche agrarie, Mario Catania. “Nasce a Castelvolturno il centro di formazione per il corpo forestale dello Stato e per le altre forze di polizia soprattutto aperto alla società civile, un’irruzione della società civile in una zona difficile”. “Un altro episodio importante della politica che stiamo facendo che vuole il Corpo forestale sempre più coinvolto in tutte le attività di presidio del territorio e lotta alla criminalità organizzata”.
Il centro all’avanguardia, costruito in un ex “terra di nessuno”, adibita a discarica abusiva, ospiterà sale conferenze, un auditorium per oltre 300 persone, camere per i corsisti, una mensa e un simulatore per la gestione degli incendi boschivi. Nelle attività del campus saranno coinvolte anche l’associazione antimafia Libera di Don Luigi Ciotti e la Direzione distrettuale antimafia di Santa Maria Capua Vetere.
E’ la nuova frontiera dei combustibili fossili non convenzionali. Anzi: la nuova frontiera dello scassare la Terra. Il Dipartimento per l’Energia degli Stati Uniti ha annunciato con squilli di trombe e rulli di tamburi il successo di un esperimento in Alaska per estrarre gli idrati di metano, il “ghiaccio che brucia”. E’ praticamente la prima volta nella storia dell’umanità.
Il test è stato effettuato insieme ai giapponesi (che compiono anche tentativi per conto loro; tutti i link come sempre in fondo) e alla società Conoco Phillips.
Già estrarre shale gas col metodo del fracking è far violenza in profondità alla Terra. L’estrazione di metano dagli idrati è una violenza ancor più profonda, più brutale, più pericolosa per il pianeta e i suoi abitanti.
Eppure gli Usa affamati di energia investiranno quest’anno 6,5 milioni di dollari per proseguire le ricerche nel settore, più – forse – altri 5 milioni l’anno venturo.
Gli idrati di metano sono una sorta di ghiaccio che intrappola – appunto – enormi quantità di metano. Si trovano in profondità sotto gli oceani e sotto il permafrost; il pianeta ne possiede grande abbondanza, sufficiente in teoria per allontanare di decenni ogni prospettiva di scarsità di combustibili fossili.
Dagli avanzi delle coltivazioni delle mele in Trentino, passando dalle foreste della Valtellina, fino al sottobosco dei pascoli nel Bellunese. È questo il legno che si trasforma in energia pulita. Un fenomeno in crescita nei territori montani, con più di 7 mila Comuni che utilizzano questa energia alternativa per alimentare centrali, caldaie, e impianti di teleriscaldamento e cogenerazione.
Un consumo diffuso degli avanzi di segheria, di sterpaglie boschive e di coltivazioni, i cosiddetti cippati, come combustibile per creare, risparmiando sui costi delle bollette, calore ed energia. Inquinando meno e valorizzando risorse territoriali di scarto che altrimenti resterebbero inutilizzate. A credere nelle biomasse e a investire sullo sviluppo delle fonti rinnovabili, per i risparmi energetici e processi produttivi, non solo le amministrazioni, le cooperative e i consorzi locali, ma anche i grandi gruppi con stabilimenti nelle comunità montane. Tra questi, ad esempio, Sanpellegrino che nella valle trentina di Pejo ha costruito una centrale termica, interamente alimentata a biomassa, nel suo stabilimento di imbottigliamento dell’acqua. Utilizzando, in maniera prevalente, i residui delle coltivazioni delle mele.
Protagonisti d’eccellenza come biomassa della centrale trentina, infatti, gli avanzi dei meleti. Polverizzati, insieme agli scarti di segheria e ai residui boschivi del Parco dello Stelvio, in appositi macchinari chiamati cippatrici e in grado di trasformare il legname in biocombustibile. Creando, in questa maniera, non solo energia pulita ma anche un legame imprescindibile e un sodalizio proficuo con le aree circostanti. «Gli scarti che utilizziamo per la nostra centrale termica», spiega Daniela Murari, direttore Csr del gruppo Sanpellegrino, «provengono tutti da un raggio massimo che va dai 40 agli 80 chilometri. Permettendo alla nostra caldaia di integrarsi perfettamente con il territorio in cui operiamo. In più, dato che l’impianto ha una potenza termica di circa 5 megawatt, stiamo mettendo a punto un sistema per sfruttare questa energia attraverso una rete di teleriscaldamento. Per ora, l’allacciamento è già stato fatto negli edifici pubblici, come amministrazioni, biblioteche, palazzi comunali e scuole. E», conclude Murari, «tra un anno collegheremo le case dei centri abitati».
Per il Tar Campania sono sottoposte al regime degli scarichi – e non dei rifiuti – le acque emunte nell’ambito di interventi di bonifica o messa in sicurezza, quando scaricate (previo eventuale riutilizzo) nello stesso sito.
È questa l’interpretazione “in linea” con l’articolo 243 (Acque di falda) del Dlgs 152/2006 che ha introdotto “una disciplina speciale per la gestione delle acque di falda emunte nelle operazioni di messa in sicurezza e di bonifica”, fornita dal Tar Campania con la sentenza 1398/2012.
L’impianto di trattamento delle acque messo in funzione al solo scopo di recuperare l’olio (disoleatore) accidentalmente sversato da un serbatoio di stoccaggio, precisa poi il Tar campano, costituisce una misura di messa in sicurezza di emergenza ma non di bonifica che, in virtù della necessaria immediatezza dell’intervento, deve essere comunicata ma non autorizzata.
Non una rivoluzione ma semplicemente un ritorno. Era da tempo che avevo abbandonato lo sviluppo del nuovo sito, ma grazie alla passione, alla pazienza e ad un po’ (molto!!) sacrificio, sono riuscito a far resuscitare il vecchio portale.
Le novità sono poche ma buone, ve le elenco:
tutto il portale si basa sulla piattaforma wordpress, prima il sito era in .asp con il solo blog in .php;
il forum è simile ma la piattaforma è cambiata, spero non ci saranno problemi nel recuperare le vecchie discussione né tanto meno nel crearne di nuove. ATTENZIONE: per scrivere nel forum è comunque necessario fare l’accesso con il vostro account, il nome utente è rimasto invariato ma sarà necessario richiedere una nuova password. Alla fine dell’articolo vi spiego come fare;
Gli appunti sono disponibili nella solita sezione strutturata per corso di studi, basterà cliccare sulla materia di interesse e scaricare gli appunti. ATTENZIONE: per scaricare gli appunti è necessario collegarsi con il proprio account;
Dalla home page è possibile cercare gli appunti tramite l’apposito campo cerca;
Non c’è più la sezione per l’upload, chi volesse condividere gli appunti lo può fare inviandoli direttamente ad appunti@inambiente.it;
Chi volesse recuperare la password deve collegarsi alla pagina del login (nel menu a alto) e cliccare su “è stata persa la password?“.
Per ogni commento o perplessità utilizzate la funzione commenti oppure scrivete a info@inambiente.it